(Questo è un work molto in progress. Un lavoro che spero si evolverà, quindi leggetelo con la più totale imparzialità senza giudicarlo.)
Tutto quello di cui cercherò di parlare, ammettendo una grande e ancora presente ignoranza di fondo su molti elementi, è semplicemente un racconto di tutto ciò che ho visto e che per un motivo o per l’altro ha sempre fatto parte di me (rubo a John Berger il titolo: “Sul guardare” perchè non mi identifico in niente di più se non in queste due parole).
Il mio viaggio è iniziato molto tempo prima di partire, e ancora oggi non mi spiego il motivo del mio desiderio di partire per Israele (e meno ancora quello di ritornarci quest’anno, testa dura…), ma fatto sta che sono qui a scriverne ad un anno di distanza.
Parto e sono impaurita dal primo viaggio da sola in un luogo del quale non so praticamente nulla, ma al quale mi sento inspiegabilmente legata.
Uno zaino riempito con quello che si ha, cose ovviamente non adatte ad un viaggio, ma anche carico di sentimenti contrastanti e tanta ingenuità.
Max e Lilach mi aspettano all’aeroporto di Ben Gurion con un cartello recante il mio nome e io, con quella poca esperienza all’estero, penso solo a come scusarmi del ritardo dell’aereo e tra me e me penso: <<Come si dice “ritardo” in inglese ? Delay ! >> Ma ci arrivo solo dopo giorni e non mi risparmio una frase tra le più sgrammaticate. Max poi si abituerà alle mie pronunce inventate e alle parole che faccio finta di capire.
Stiamo andando a Ramat Gan, città israeliana della provincia di Tel Aviv.
Casa di M. e L. è un appartamento piccolo ma accogliente all’interno di un condominio che visto dall’esterno non ispira molto. Il divano, quello che poi diventerà il mio letto per molti e molti giorni, dopo un’esperienza di Wwoofing (WWOOF) che non saprei bene come definire, è anche uno dei posti preferiti per ricercare affetto, di Filter, il cane che amo di più al mondo e che mi ha regalato momenti di dolcezza infiniti. Del gatto invece, forse sarebbe meglio non parlare…
Comunque, sono qui, dopo ore di volo e tanta stanchezza.
Il motivo del viaggio, tra i tanti, é il Wwoofing sopra citato, che svolgerò a Netanya, più a nord di Tel Aviv, in un moshav gestito da un certo Amir, che poi imparerò a conoscere (purtroppo)
Mi fermo da M. e L. giusto un paio di giorni e poi la Domenica prendo i mezzi per arrivare al luogo citato. (La settimana lavorativa israeliana va da Domenica a Giovedì, mentre dal tramonto di venerdì e per tutto il giorno seguente è Shabbat, se non sbaglio)
La faccio breve, fate wwoofing perchè è un esperienza davvero meravigliosa che aiuta a capire molto il “dietro le quinte” del mondo imbellettato che ci viene proposto molte volte, però siate sicuri di arrivare in un posto decente e magari con la possibilità di conoscere altre persone, che è anche un po’ il bello !
Insomma, domenica e il mio arrivo alla farm sembrano prospettare due settimane di lavoro interessanti e coinvolgenti (sembrano..), ma l’unica persona che lavorerà con me in quei giorni, oltre ai tanti thailandesi (?), sarà un ragazzo di San Diego con il quale interagirò per un giorno soltanto.
Per il resto si rivelerà tutto un escalation di pianti, sveglie alle cinque del mattino, docce fatte non so ancora bene come e lunghissime serre nelle quali stare per sei ore.
Ci vorranno mesi per metabolizzare e rivalutare l’esperienza, ma ripensandoci e ridendoci su, sono felice di averla sperimentata.
Di una settimana (sì, sono scappata dopo sette giorni perchè la situazione era davvero al limite), gli unici momenti davvero belli, sono stati quelli passati con i ragazzi thailandesi, in questo caso tre, con i quali parlare era praticamente impossibile. Tra gesti per capirci, viaggi con un carrettino poco affidabile e costruzione di sistemi di irrigazione, sono stati giorni molto pieni e sfiancanti. D’altro canto invece, quando mi toccava stare sola in campi di cetrioli, o ancora peggio di fragole, era tutta un’altra storia. Piccoli momenti tragici ma di una straordinaria spontaneità.
http://www.osservatorioiraq.it/node/8902
L’arrivo del giorno libero è stato una salvezza. Non ricordo bene nè come nè quando, ma in quei giorni sfogliando la guida(Lonely Planet Israel and the Palestinian Territories), decisi di andare ancora più nord, ad Haifa, per riuscire ad assaporare qualcosa di più almeno del posto nel quale mi trovavo. Preciso che con i mezzi non ci so fare molto, e tante volte mi piace farmi trasportare dagli eventi, quindi il mio arrivare ad Haifa è stato totalmente affidato al caso. Pullman su pullman e passaggi in macchina da persone non proprio normali (rischi dell’autostop), arrivo in una città che è una delle più belle visitate.
Decido di stare fuori per la notte e di far così capire ad Amir che nemmeno sotto tortura sarei rimasta un’altra settimana da lui. Cammino e cerco di rintracciare ostelli che con poco preavviso possano offrirmi un letto. Ne trovo uno (Port Inn guest house), che scopro poi essere al completo e nel quale l’unico posto disponibile, era la così chiamata “emergency room”, ovvero una branda nel corridoio, separata da una tendina.
Ora, va bene l’avventura, va bene il risparmio, ma almeno per una notte voglio dormire per davvero. Ringrazio il gestore dell’ostello e ritorno sui miei passi, dove, fortunatamente trovo un altro ostello(Yafo82 guest house), gestito da un signore molto simpatico del quale vorrei tanto ricordare il nome, che mi offre un letto e anche qualche parola gentile. Scopro poi che uno dei dipendenti è un italiano ormai trapiantato a Haifa con moglie e figli, gentilissimo anche lui, che si offre di accompagnarmi a prendere qualcosa da mangiare.
Il giorno seguente proseguo ancora più a nord. Akko (Acri) con la sua città vecchia considerata dall’UNESCO patrimonio mondiale dell’umanità.
Insomma, i gruppi di turisti che la affollano mi fanno capire che sto andando nella direzione giusta. Camminando, decido di entrare in un negozietto, nel quale faccio la conoscenza di un signore di cui purtroppo non ricordo esattamente le origini e la storia, ed è un peccato perchè sarebbe stato molto interessante da raccontare, e di suo nipote.
Lui, Shahiq (decifro questo nome sul post che mi ha lasciato), si offre di farmi da guida per la città. Ritorniamo nella moschea nella quale ero stata precedentemente ma della quale non sapevo nulla, e riusciamo a salire al volo-beh, più o meno, su una barca per turisti stupidi che però da una visuale della costa che non è poi così male, a dispetto di tutto il resto.
Si offre di pagarmi tutto, dal pranzo a qualsiasi altra cosa e poco prima del mio ritorno a Netanya, mi porta davanti al mare. Dagli scogli in lontananza si vede il Libano dice lui ed io rimango inerme quando le uniche sue parole che ricordo in modo vivido, ora tradotte, sono: “ascolta il rumore delle onde sugli scogli”.
Cerca di spronarmi a restare un altro giorno come ospite, ma vuoi per senso del dovere ( ma cosa diavolo avevo in testa ?!) nei confronti di Amir sia per paura, decido di ritornare alla farm.
Dico subito ad Amir che voglio andare via e cerco di capire in poco tempo, dove andare. Chiamo M. e L. anche se mi sento in colpa. Mi dicono che posso stare da loro per un po’ e così pochi giorni dopo sono di nuovo a Ramat Gan con nuove storie da raccontare a quei due amici che comunque, anche se forse stanchi di ospitarmi, ci sono sempre.
Non riesco a scandire benissimo il tempo nei giorni seguenti, però ricordo che mi sentivo bene ed ero felice di essere di nuovo con loro. Ricordo (sempre vagamente) che L. lavorava praticamente sempre, quindi la maggior parte del mio tempo la passavo con M. che è davvero una persona fantastica. Ricordo un viaggio in pullman durante il quale cercava di insegnarmi la lettura di alcune frasi in ebraico, sorpreso del fatto che io riuscissi a recitare (a pappagallo da una canzone per bambini imparata su youtube), l’alfabeto ebraico.
Io ho vissuto da esterna, in un luogo che il conflitto lo percepisce in un modo moltro traviato (dal mio punto di vista). Mi spiego meglio, probabilmente se fossi stata in una città dei Territori Palestinesi, avrei sentito molto di più di essere in un luogo totalmente diverso da casa. Ma Tel Aviv è Tel Aviv, lei va avanti tra palazzi altissimi e traffico a tutte le ore, tra Sherut (taxi collettivi) che suonano il clacson come se fossero pagati per quello. Quando per caso finisci a Bnei Brak, una città abitata da ebrei haredim, ovvero la forma più conservatrice dell’ebraismo ortodosso, ti rendi conto di quante realtà convivono e si mischiano all’improvviso come se niente fosse. A Bnei Brak ci sono finita quando ho deciso di andare a trovare un’amica a Gerusalemme, Linda (mia madrelingua durante un anno di liceo ed ora un’amica con la quale ho sempre piacere di parlare)
Da Bnei Brak, il viaggio per Gerusalemme non dura moltissimo, o almeno a me sembra così, e quando arrivo, non riesco bene a capire cosa sento. Il pullman ferma alla Stazione Centrale e da lì mi incammino per andare nel quartiere di Nachlaot dove si trova casa di Linda. Gerusalemme, per quanto ho potuto capire, è divisa in quartieri e quello di Nachlaot se non erro, è considerato il “quartiere degli artisti” (ricordo che è un work in progress quindi lancio ricordi totalmente casuali).
La prima richiesta che ho per Linda, è quella di andare a vedere la città vecchia. Orientarsi a Gerusalemme per me è stato molto più facile che in ogni altra città. Mi perdevo ma riuscivo quasi subito a ritrovare la strada verso casa.
La città vecchia non la si può spiegare bene finchè non la si vede con i propri occhi. Potete vedere il Muro del Pianto, La Chiesa del Santo Sepolcro, la Moschea di Al-Aqsa, La Cupola della Roccia e tutto a pochi passi di distanza.
Varie entrate portano all’interno delle Mura e solo ora realizzo che i momenti più belli tra le mura sono stati quelli in cui, tornataci da sola, mi sono persa in uno dei suoi piccoli quartieri, dove un bambino arabo mi ha aiutato a ritrovare la strada ed un soldato mi ha invece vietato il passaggio per una via (il motivo poi non l’ho ancora capito, ma credo che molte volte nemmeno ci sia)
E’ una città dentro la città, potete trovarci di tutto se siete dei turisti incalliti alla ricerca di foto da postare, semplicemente dei religiosi o se siete degli osservatori come me.
Un breve riassunto di un viaggio che mi ha fatto vedere pochissimo di quello che un luogo può offire, in termini di racconti, vissuti, volti e situazioni. Ma che sono sicura quest’anno mi porterà a scoprire nuove cose, forse anche su me stessa in relazione alle altre persone.
Voglio spendere qualche parola sui controlli aeroportuali all’uscita del Paese. Per quanto io in realtà non sia stata tediata molto con domande relative al mio soggiorno, ho trovato divertente, oltre alla domanda: “any weapons ?” come se uno che davvero possiede un’arma vada a dirlo ai soldati che lo interrogano, come se fosse normale. Dicevo, la cosa divertente è relativa alle domande sul mio vissuto personale che poco centravano con un viaggio in Israele. Spero che almeno quest’anno sappiano fare di meglio ! (la metto sul ridere dai)
Quest’anno sarò qui: SACH ma sarò anche in tanti altri posti, con la mente, con il cuore, con le emozioni.